THE FALL – “This Nation’s Saving Grace”

This_Nation's_Saving_Grace

“Se sai ciò che vuoi dire, ma non sai come dirlo, non dirlo affatto. Rischi di far crollare dighe senza saperlo”

Dopo una lunga pausa, ecco l’articolo nuovo che tanti ( ah sì? Parrebbe!) avevano richiesto. E la lunga stipsi sociopolitica a seguire, densa come una buona brodaglia ristoratrice invernale. Passatemi l’analogia tra un attacco dissenterico e una zuppa di verdura dai, giustizia poetica o gappismo psychoassociativo avete capito dove voglio andare a parare. Fa freddo, fa caldo, si lavora, si suona, si finisce a fare capporella in posti abbastanza freschi e arriva l’attacco che ti costringe al sturm und drang esistenziale sulla tazza del cesso e quindi eccomi qui – Via con l’articolo allora? Via via. Andare, camminare, lavorare! – ma la recensione di Piero Ciampi (e il dubbio amletico della cit. colta in grassetto) me la tengo per la prossima volta.
Si fa un gran parlare di politica. Si fa un gran parlare IN politica. Per qualche motivo, si pensa sempre che la politica sia questo gran teatro dove pupazzi più o meno simpatici/utili a riempire quello che c’è tra la noia esistenziale e l’attaccamento alla terra – in altre parole, una specie di calcio giocato da squadre di hooligans che al posto del pallone utilizzano slogan per fare porta, e portarsi a casa la partita. E sbandierarlo in faccia a chiunque più per senso di appartenenza a qualcosa più che portare un qualcosa effettivo.
O più semplicemente – la politica è riempire di nulla significativo il chiasso simil esistenziale che ci circonda. “Va beh Ale, ma dove vuoi arrivare?” “Eh, e moh te lo spiego”
Sono un teorico pratico del chiasso esistenziale applicato. Per dirla con un eufemismo, credo fortemente che esista un senso di spaesamento comune a tutti in certi momenti della vita di ognuno che più o meno coincide con il realizzare che tu, essere unico con unico buco d’ingresso e d’uscita intercambiabili di parole e peti, sei solo al mondo. Sei, in buona sostanza, un individuo vergine cui certe domande non possono rispondere nemmeno i tuoi genitori, i tuoi amici, colleghi, amanti, detrattori (per quanto si sforzino) e che certe domande implicano parole scomode o alle volte incomunicabili che creano sconforto solo nel tentativo di idealizzarle.
Tipo? Tipo Autocensura. Limitazione per quieto vivere. Sarcasmo accecante. Sincerità selettiva. E tante altre cose che per ora in politica, come in società , non vengono dette ma fatte come un dribling ben fatto e un gol praticamente regolato alla squadra avversaria. E perdere, perdere perché si sbagliano le mosse, non si prevedono, si preferisce tacere e dare la partita alla squadra avversaria.
Conta più quello che si tace più che quello che si dice, alle volte. “Si ma Ale, che centra questo con il disco?” “Eh, moh te lo spiego”

 

Fall old

the fall band

There’s no soul in discos. No life in the pubs. Our eyes are red. Our brains are Dead.”

I Fall di Mark E. Smith sono Inglesi. Vivono in quel di Londra, laddove essere british è più un sentire melaconico e scazzato fatto di hooliganismo, calcio e birra, pubs, noia, esistenzialismo minimale con testi che paiono quasi schizzi d’art brut morfosintattici . Per farla breve – non esiste un’altra band più inglese dei Fall. I Fall sono la versione depressa (ma non meno incazzata) di un gruppo “punk” di periferia, ma troppo (finto) bifolchi e troppo (avant) weirdo per essere un gruppo semplicemente (post)punk. Insomma – pecore nere ben contente di essere pecore nere tra le pecore vestite di nero emule di Curtis/Joy Division e consociati.

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This Nation’s Saving Grace”, fin dal titolo, è uno sberleffo all’Ighilterra del 1985. La vita descritte in piccoli teatrini patetici, dove si tende a descrivere un attimo in pochi versi ripetitivi, o sputare merda su quel che capita giusto per sentirsi “a passo coi tempi che corrono” con tutto il sentirsi fuori posto del caso. Le canzoni dei Fall sono fuori posto, ma perfettemente logiche seppur difficili da seguire – Smith vaga tra un gioco di parole e l’altro e frasi fatte che racchiudono più vissuto di quanto paiano volerne contenere. La formula dei Fall è esattamente quello che li ha definiti fin dal primo “Live At Witch Trials” ma corretta ed espansa – una voce piagnucolante (quella di Smith, appunto) che sciorina i suoi calci di rigore tra testi che paiono osservazioni prive di un filo logico (ma ce l’hanno e come… almeno il più delle volte) assemblati tra un trip di droga e gite alcolico/musicali en masse a qualche pub/locale su un tessuto scalcinato e pieno di clangori quasi industrial/noise rock – ma con tre accordi e via. Bassi pulsanti, rimtmi quasi funky, canzoni non canzoni. Insomma, un bel pout purri che all’inizio rimane quasi indigerbile. Ma una volta che ti prende è bello come un trip acido uscito bene. In poche parole, quel chiasso esistenziale applicato di cui sopra trova forma musicale in ciò che i Fall portano avanti ormai fin dal 79 – con solo il rompicoglioni Mark E. Smith alla guida costante del progetto. Ben lontano dall’essere il capolavoro (“Bend Sinister” l’anno dopo, compirà il decisivo salto in avanti) rimane un disco che risulta fresco ed attuale anche ad un orecchio non avvezzo al “sentire” dei Fall.

8cea09c724f127b5a368781a48e92b33--punk-art-the-fall.jpgL’allegro Rompicoglioni, Mark E. Smith

“This Nation’s Saving Grace” Risulta, finora, la migliora colonna sonora dei tempi che corrono ANCHE in Italia, perché la trafila di pupazzi che guidano la politica dei paesi europei e non c’è una costante che non cambia mai – lo scazzo. L’uso di parole come armi e come mezzo per tirarsi fuori dalla gabbia che altre creano, creando , citando il mio professore di Anatomia “Una malattia nella malattia.” E per sopravvivere alla malattia, bisogna farsi promotori di un nuovo vocabolario dove l’indice comincia con la premessa di dire una verità incontestabile incorniciata da un “Vaffanculo” come si deve. Volete una verità? Vaffanculo, ascoltatevi i Fall invece di pisciarvi nelle mutande ascoltando la merda di X Factor per pensare un po di più alla vita reale, invece di emulare gli emuli di un mondo plastico di stampo simil Hollywoodiano. E con permesso, torno alla mia stipsi.

 

“Zampe di corvo segnano la mia faccia
e sto vivendo troppo tardi
Provo a lavare il nero via dal volto, ma si è radicato
E sto vivendo troppo tardi

Insonne, ancora sotto controllo
D’accordo, di buona famglia
Devo aver colpito con un treppiede i miei geni
Sono immune alle cose
nei miei sogni

Ho visto per le strade
I rivoli del fiume avvelenato
E il suo battere traditore ed infido
Ma ancora il mio cuore è pietra

Finalmente attraverso il cancello dei parassiti
ma c’è una sentinella 24 h su 24
E sto vivendo troppo tardi
Penso

Alle volte la vita è come un nuovo bar
Seggiole di plastica, birra sotto la media
Cibo senza sapore, musica in sottofondo
Sto vivendo troppo tardi

Una volta parlare era il mio passatempo preferito
Ma ora so come finisce una conversazione
prima che cominci
Forse sto vivendo da troppo tempo.

La luce del giorno

Vedo guai per la strada
Temo d’incontrare catastrofi ambulanti
Cammino per il giardino del diavolo
Ma ancora il mio cuore è duro

Dicono che i suoi scantinati serbassero il male
Ma so che si sbagliano
Penso che sia solo uno qui
che ha vissuto per troppo tempo

Occhi come due schermi TV
continuamente aperti
Non avvertono dolore
Vivo ancora

Sono decisamente e felicemente triste
La linea spezzata
La visione andata
Sto vivendo da troppo tempo”

(“Living Too Late”)

 


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